29 Dicembre 2014

Lost in translation 3

Appunti, Viaggi

Cuore
Hiroshima è sicuramente parte di quel ristrettissimo gruppo di luoghi dove ho sentiro distintamente pulsare il cuore del mondo. La Casa Bianca, a Washington. Il cimitero ebraico, a Varsavia. Piazza San Pietro e il Cremlino. Ci sono altri posti dove non sono mai stato ma sono sicuro debba sentirsi chiaramente quel palpito: Auschwitz, per esempio. Julia, l’amica che viaggia con me mi ha detto di Phnom Penh in Cambogia. A Hiroshima, il dolore dell’umanita lo senti sudare dalle pietre.

La vita continua
Dopo l’esplosione si disse che in città, per via delle radiazioni, non sarebbe germogliata nessuna forma di vita vegetale per almeno 75 anni. Oggi ci sono almeno 2000 alberi che crescono rigogliosi, dono di tutte le altre città del Giappone.

Bandiere
Gli americani sono dei maniaci della propria bandiera e pure i francesi sono abbastanza fossati con il tricolore. In Giappone invece non si vede nemmeno una bandiera con il bellissimo e inconfondibile contrasto del cerchio scarlatto sul campo candido. La prima bandiera con il sol levante, e unica finora, l’abbiamo vista proprio a Hiroshima, sul pennone che svetta nel parco della pace. Ma non c’era vento e se ne stava lì, morta e abbandonata su se stessa come un cencio. Sui pennoni delle capitali vittoriose le bandiere garriscono anche quando c’è bonaccia piatta.

Cortesie
In una città dove tutto è intitolato alla pace (“The peace park”, “Peace Boulevard”, “The peace flame”) non si parla mai – nè bene, né male – di chi la bomba l’ha sganciata. Pure le foto del museo sono definite in modo neutrale, come “Courtesy of the US Army”. Grazie per la cortesia di averci almeno mandato le foto (di quello che ci avete fatto).

Dannati
Pare che per la temperatura raggiunta dopo l’esplosione, i sopravvissuti si aggirassero come i dannati dell’inferno, con la pelle liquefatta e fusa col tessuto degli abiti.

Saper guardare oltre.
Poi, alla fine, dietro tutto questo, c’è sempre una decisione politica. Chi materialmente sganciò la bomba (“Little boy”, si chiamava l’ordigno), lo fece eseguendo un ordine che qualcuno più in alto gli aveva dato. Si può decidere, lo si fece im effetti, che il fine di portare rapidamente a conclusione una guerra durata anni e costata decine di milioni di morti giustificasse il mezzo di polverizzare centocinquantamila persone in un istante e sottoporre a una morte preceduta da indicibili pene un numero altrettanto alto di innocenti. Provocare “soltanto” trecentomila morti in più, per far cessare un conflitto che aveva già causato settanta milioni di vittime, di cui quasi cinquanta milioni di civili. Può essere sembrata la cosa giusta da fare, ma oggi, davanti alla lapide che individua in un vicolo di Hiroshima l’epicentro di quell’esplosione, sarebbe stato visibile chiaramente a chiunque quanto tragica, fatale e irreparabile per i destini dell’umanità sia stata quella decisione. Per chi come me si trova a lavorare nel governo di un grande paese, la conferma ulteriore e definitiva che la politica non è e non potrà mai essere una scienza esatta, di quelle in cui la cosa giusta da fare può essere determinata solo sulla base dei numeri o delle quantità. Senza tener conto del destino individuale di ogni singola persona che sarà toccata dalla scelta di chi alla fine deve decidere per tutti.