27 Dicembre 2005

I compensi degli amministratori e il capitalismo italiano

Diritti

Balocchi ai bimbi buoni, carbone ai cattivi. Ma con gli amministratori delle società quotate Babbo Natale è di diverso avviso: copre di regali indifferentemente buoni e cattivi. Negli Stati Uniti, tanta generosità ha scatenato la rivolta degli investitori e attirato gli strali dei media. Da noi tutto tace.……….Nelle società quotate, i compensi degli amministratori dovrebbero essere il primo problema della governance. Dopotutto, la remunerazione di chi gestisce i soldi altrui deve essere commisurata ai risultati ottenuti. A maggior ragione in Italia, dove chi gestisce è spesso anche azionista di controllo e quindi soggetto a un conflitto di interessi in più. Negli USA, i compensi sono lievitati negli anni novanta, molto più degli indici di Borsa. I prezzi delle azioni, a loro volta, sono cresciuti ad una velocità doppia rispetto agli utili: così i compensi dei managers sono aumentati a dismisura malgrado la redditività sul capitale investito delle società, che dipende dagli utili, mostrasse una crescita contenuta. Quando poi la Borsa si è sgonfiata, non c’è stato alcun taglio delle remunerazioni dei managers; che però sono ripartite, negli ultimi tre anni, in tandem col rialzo dei mercati. Con effetti redistributivi non indifferenti: il compenso medio del Chief Executive Officier (CEO) americano è passato da 100 volte lo stipendio medio di un suo dipendente nel 1991 a 400 nel 2004.……………La situazione italiana è difficile da valutare. Non ci sono analisi sistematiche dei dati, nonostante questi siano disponibili: dal 2000, compensi e piani di stock options devono essere indicati a margine del bilancio. Il Codice di Autodisciplina prevede i Comitati Compensi che, però, raramente spiegano il loro operato: ennesima conferma che le leggi non bastano se nessuno ha interesse a farle applicare. Così, ho provato ad analizzare una società pubblica (Enel), una banca (Mediobanca), un gruppo industriale (Mondadori) e uno nei servizi (Telecom). Niente di scientifico, ma meglio di nulla. Da inizio 2000 a fine 2004, gli azionisti di Telecom hanno perso il 41 % (includendo i dividendi); l’utile del gruppo nei cinque esercizi è cresciuto a un tasso medio del 20 % (interpolando i dati annui), ma i compensi di presidente e amministratore delegato (…) sono lievitati del 91 % (includendo le stock options…): da 170 a 304 volte il costo medio del dipendente del gruppo. Siamo a livelli americani. Agli azionisti di Enel è andata meglio (+19 % con i dividendi), anche se gli utili sono rimasti piatti. Però i compensi del vertice sono aumentati del 138 %: da 49 a 102 volte lo stipendio medio. Lo stesso vale per il privato: l’azionista Mondadori ha perso il 35 %, gli utili sono cresciuti mediamente del 11 % ma il compenso dell’amministratore delegato è aumentato del 345 % (da 21 a 80 volte lo stipendio medio). Mediobanca è l’unica che ha fatto felici gli azionisti (+58 %…) con utili in crescita stabile (+20 %). Ma presidente e direttore generale sono più felici ancora: assieme +576 %; da 24 volte lo stipendio medio, ai tempi di Maranghi, a 112. Non siamo l’America, ma qualche investitore dovrebbe incominciare a preoccuparsi. Si parla tanto di governance: è ora di occuparsi di problemi concreti. Nel frattempo, cominciamo ad abolire il regime fiscale privilegiato (12,5 %) per le stock options: sono reddito, vanno tassate come tale.
(Fonte: la Repubblica, 23 dicembre 2005)
Nello stesso numero de La Repubblica leggiamo, in cronaca di Firenze, che 260 lavoratori della Matec saranno posti da Natale in cassa integrazione e poi licenziati per “cessazione di attività”. Nella pagina accanto 1500 lavoratori, fra le sedi di Firenze e di Genova, della Esaote attendono con ansia la fine della vicenda della vendita da parte della proprietaria Diana Bracco, presidente di Assolombarda. Si temono pesanti ristrutturazioni (leggi licenziamenti) a vendita avvenuta. Così i padroni, hops! gli imprenditori, augurano Buon Natale ai lavoratori, mentre lo augurano a loro stessi nel modo descritto da Penati.
La lista della de-industrializzazione è lunga, non inizia ora, e non è prerogativa solo italiana, così come la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Paul Krugman, economista di fama del MIT ed editorialista del NYTimes, in “L’incanto del Benessere”-Garzanti 1995 mostra che, negli anni successivi allo shock petrolifero del 1973, la crescita del reddito personale inizia a farsi ineguale privilegiando la fascia medio-alta. Più in dettaglio, negli anni 1977-1989, era Reagan, la crescita del reddito negli USA è stata negativa (-10 %) per il 40 % della popolazione, positiva (+10%) per il 40 % , più che positiva (+20%) per il 19 % mentre l’1 %, che già deteneva il più alto reddito, lo ha raddoppiato (+105 %).
Dal rapporto CENSIS 2005 sulla situazione italiana:
a) Schegge di vitalità dal Made in Italy.
b) Ripartono i consumi.
c) Crescono i nuovi ricchi.
d) Fermo il mercato del lavoro.
Aggiungiamo che l’ aumento del PIL 2005 è previsto intorno a 0,2 %, mentre il debito pubblico ha raggiunto la ragguardevole quota di circa il 110 % del PIL. Qui c’è qualcosa che non torna. La produzione industriale è ferma ed in molti settori in declino, la ricchezza del Paese non cresce, cresce la disoccupazione e, ancora peggio, la sotto-occupazione, e allora come fanno a ripartire i consumi e a crescere i nuovi ricchi? Presto detto. Si fanno debiti, che diamine! Solo che c’è debito e debito. C’è il debito dello Stato, quello delle aziende e quello individuale. Chi paga? Per il debito individuale, è facile: chi contrae debiti per consumi di prima necessità e non solo, non può scaricare i debiti altro che su se stesso. Se non si pagano le rate del mutuo, la banca, dopo aver lucrato un bel po’ di interessi, si riprende il doppio dell’importo prestato e ti caccia in mezzo alla strada. Non dobbiamo quindi stupirci che i 7,5 milioni di poveri, censiti oggi, siano in crescita da anni, così come l’indebitamento delle famiglie. Per quanto riguarda il debito dello Stato, è ovvio che lo paghiamo tutti noi, ma quello delle aziende? Noi paghiamo anche quello, nelle forme più varie: come azionisti di minoranza che mettono i soldi e non contano nulla e come contribuenti se lo Stato si fa carico del fallimento di un’azienda come alla fine degli anni ’80 negli USA, quando il fallimento delle Casse di Risparmio costò al contribuente americano 100 miliardi di dollari sottratti ai programmi di assistenza per gli esclusi: donne, neri, diseredati in genere. Nonché ovviamente con la perdita di posti di lavoro e la desertificazione industriale. Senza risalire alla Ferruzzi di Gardini, al Banco Ambrosiano, qual è il costo sociale di: Parmalat, Cirio, Giacomelli, Bipop, fra poco Popolare di Lodi e tante piccole e medie aziende che hanno solo gli onori della cronaca locale?
Le aziende si indebitano sempre di più e non creano posti di lavoro veri, ma i managers si premiano sempre. Secondo uno studio di Tamburi Investment Partners, apparso su La Repubblica il 15 gennaio 2004, i quattro gruppi Telecom, Enel, Autostrade e Fiat, che rappresentano insieme il 20 % della capitalizzazione di Borsa, avevano un totale aggregato di passività finanziarie a breve e lungo termine di 107 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto consolidato di 54 miliardi di euro, ovvero un rapporto debiti lordi/patrimonio netto=1,97.
In particolare, Tronchetti Provera, il manager per eccellenza, siede sui 44 miliardi di debito di Telecom fatti da lui ed ereditati dalla razza padana, Colanninno e Gnutti, quando, con la benedizione del centrosinistra, scalarono, senza una lira, la filiera Olivetti-Telecom. Non creano valore i nostri “efficientissimi” managers, di cui parla Penati, ma in compenso hanno dato un fondamentale contributo allo sviluppo del Paese ben rappresentato dalle cifre CENSIS: le vendite di auto di lusso da 80mila euro in su sono aumentate del 12,6 %, di barche superiori a 12 metri del 10,6 %, di cui del 16,5 % quelle superiori a 18 metri. Questo forse spiega anche perché certo Made in Italy sia in ripresa…
Più che lo spirito del capitalismo, sembra aleggiare sulla nostra classe dirigente industrial/finanziaria lo spirito del Re Sole: “Aprés moi le delouge”. Sarà perché da noi vige l’etica cattolica invece di quella protestante?
Francesco Giammanco