20 Ottobre 2009

Il posto fisso

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Rimugino da ore su questa cosa di Tremonti e della difesa del posto fisso. Lo faccio perché penso che il posto fisso sia di fatto un anacronismo e anche abbastanza una fregatura per i lavoratori dipendenti (e proverò a spiegarne le ragioni) e perché mi pare evidente il paradosso, che secondo gli schemi classici di destra e di sinistra la situazione dovrebbe essere totalmente rovesciata. Ma insomma, tant’è e ci dovrà pur essere un motivo.

Cerco di spiegare cosa ne penso io: tra un posto di lavoro precario, uno stabile e uno inamovibile passano, va da sé, enormi differenze. In Italia si verificano sostanzialmente solo la prima e la terza fattispecie: il lavoratore può trovarsi in una situazione di totale precarietà, completamente alla mercé del datore di lavoro, senza nessun diritto (malattia, ferie, maternità) o garanzia, senza formazione professionale, nella posizione di non avere alcuna prerogativa e di poter essere lasciato a casa da un momento all’altro; oppure, se è molto fortunato, può avere il famoso posto fisso, dove l’eventualità di perdere il posto di lavoro è assolutamente residuale anche perché nelle poche ipotesi in cui l’ipotesi di restare a casa si verifica nei fatti il lavoratore gode di una rete di protezione veramente debolissima. Di fatto lo Stato, non sapendo cosa fare di un lavoratore che perde il posto, rende la cosa virtualmente impossibile e morta lì.

Come ho avuto occasione da osservare da vicino durante la mia vita professionale, invece, nella maggior parte dei paesi d’Europa si è scelta la strada mediana: quella di una contrattualizzazione completa del rapporto di lavoro con la garanzia di una rete di protezione forte (sia in termini economici che di formazione professionale) nei periodi di eventuale disoccupazione tra un lavoro e l’altro. Questo significa che, in costanza di rapporto di lavoro, il lavoratore gode della pienezza dei diritti (ferie, malattia, maternità, formazione professionale) ma non ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento.

In sostanza gli ordinamenti degli altri paesi europei si concentrano, come si dice spesso, sul tutelare la persona del lavoratore invece che il suo posto di lavoro. La tutela non si traduce nel fare in modo che il lavoratore sia inamovibile e resti il più possibile dov’è già, ma nel sostenerlo economicamente nel caso di difficoltà e agevolarlo nella ricerca di una nuova occupazione in quei casi in cui perda il posto di lavoro.

Ci sono molte ragioni per cui io credo questo sistema sia preferibile, ma quella assolutamente principale è che alla fine il livello di tutela che il sistema europeo garantisce ai lavoratori è molto più elevato del nostro. Questo per due motivi: il primo è che la garanzia data da una rete di protezione statale è necessariamente più forte di quella di qualsiasi azienda. Per quanto si possa costringere un’azienda a tenersi dei dipendenti di cui non ha bisogno o che non vuole, nessuno può evitare che si verifichi un momento di bancarotta nel quale non ci sono soldi in cassa per pagare gli stipendi. Il secondo è che la tutela italiana, formalmente fortissima e concentrata al momento finale del rapporto, è in realtà sostanzialmente molto bassa nella ordinaria quotidianità dello svolgimento dell’attività lavorativa.

Il messaggio che il nostro ordinamento dà al lavoratore dipendente che fortunosamente sia riuscito ad avere un contratto a tempo indeterminato (cosa che capita a pochi di quelli che entrano oggi nel mercato del lavoro) è che non sarà licenziato. Poi basta. In una situazione in cui si assicura questa forte tutela collettiva minima, le tutele individuali diventano però molto più deboli: le normative antidiscriminazione sono meno ficcanti in Italia di quanto lo siano in Gran Bretagna, per esempio: se il tuo vicino viene promosso e pagato il doppio di te solo perché tifa per la stessa squadra del capo c’è pochissimo da fare.

Anche la capacità del lavoratore di posizionarsi come risorsa sul mercato del lavoro viene completamente meno: tutto il sistema suggerisce che il meglio che ti possa capitare nella tua vita lavorativa è che non ti capiti assolutamente nulla, il che, per esempio, scoraggia qualsiasi lavoratore dal verificare se sul mercato del lavoro esistano o no posizioni di lavoro migliorative. All’estero non è infrequente che un lavoratore, anche non particolarmente in alto nella gerarchia aziendale, si licenzi per aver avuto un’offerta di lavoro da un concorrente e magari decida poi di restare in azienda grazie al rilancio economico del vecchio datore di lavoro: il risultato è che da noi i minimi tabellari sono la regola, all’estero spesso l’eccezione. In Italia questo tipo di dinamiche invece esiste solo al livello dell’alta dirigenza.

Ovviamente questo meccanismo funziona solo in presenza di due fattori decisivi: il primo è che ci si trovi in una situazione in cui norme (giuridiche e anche culturali, verrebbe da dire “etiche”) molto stringenti favoriscono decisioni da parte aziendale basate solo sul merito; il secondo è che la rete di protezione posta in essere dallo Stato sia efficace e non utilizzata in modo fraudolento.

Il vantaggio però è quello di incoraggiare la formazione di una mentalità “adulta” in capo al lavoratore, che gestisce la sua vita professionale non tanto in un’ottica di pura limitazione del danno e nella speranza, appunto, che non gli cada mai in testa una tegola, quanto monitorando con attenzione i propri progressi professionali e sviluppando la consapevolezza che se è vero che il lavoratore ha disperatamente bisogno di un lavoro è vero anche che le aziende hanno disperatamente bisogno di lavoratori.

Si sviluppa la coscienza in capo ai lavoratori che la vera garanzia non è avere un lavoro tout court, ma avere un lavoro in un’azienda sana. Che, lapalissianamente, è meglio lavorare in un’azienda attenta alla salute e alla crescita professionale dei propri dipendenti che in un’azienda purchessia, quella nella quale lavoriamo perché così ci è capitato. E’ anche una logica molto più in linea con le esigenze di una società avanzata, più veloce e mobile, nella quale le persone non aspirano necessariamente alla stabilità perenne, ma intendono sviluppare esperienze diversificate magari spostandosi da una città all’altra o da un Paese dell’Unione all’altro.

In ultimo, un diritto del lavoro siffatto costringe i datori di lavoro ad occuparsi di più e meglio dei propri dipendenti perché non è detto che la forza lavoro si accontenti di lavorare per sempre per un pessimo datore di lavoro. Questo sviluppa un meccanismo di concorrenza tra datori di lavoro che in Italia non esiste e che priva il nostro paese di una spinta al miglioramento dall’interno, lasciando il miglioramento delle condizioni dei lavoratori alla sola e insufficiente – lo vediamo in queste ore con l’annosa vicenda del contratto dei metalmeccanici – contrattazione collettiva che, quando può, riesce al massimo a spuntare piccole conquiste economiche ma certo non può forzare le imprese a trasformarsi in luoghi di lavoro più desiderabili e sani.

Se penso dunque al modello di società che Tremonti ha in mente, chiuso al mondo, “protetto” e fermo, mi pare che la sua sortita di ieri sia perfettamente in linea con il suo pensiero. Quanto la sinistra debba rincorrerlo sul terreno dell’immobilismo e della rincorsa verso il passato, invece di sostenere la creazione di una vera cultura del merito e del sostegno di chi è in condizione di debolezza, mi pare al contrario una questione tutta ancora da discutere.

11 risposte a “Il posto fisso”

  1. Antonio ha detto:

    bellissimo. Un applauso commosso.

  2. Andrea Ballabeni ha detto:

    Altro appluaso commosso.
    Andrea B.

  3. Corrado Truffi ha detto:

    Sono molto, molto d’accordo: un altro applauso.
    Ma sono un pochino d’accordo anche con Gallino, perché conoscendolo credo parli del posto fisso come lo intendi tu, il posto stabile. E perché comunque un modo di ripristinare il senso comune per il welfare della sinistra dobbiamo pure trovarlo

  4. aurelio alaimo ha detto:

    Si può essere d’accordo o no, ma questa è davvero una bella riflessione. Mi piacerebbe leggere più spesso questo tipo di post. Invece ho l’impressione che spesso ci si perda in questioni minori, e non si affrontino le questioni più serie. E non è questione di brevità o lunghezza.
    Aurelio Alaimo

  5. Zanna Bianca ha detto:

    La differenza tra una giusta difesa del lavoratore e l’assurda pretesa di difendere il posto di lavoro, l’eterna pantomima di un sindacato impresentabile che sigla anche per conto tuo un accordo contrattuale/retributivo che vale anche per te che li hai delegati lavori e anche per il tuo collega sfalzino (quello x causa del quale tu spesso lavori doppio); questi si che sono argomenti pregnanti della vita politica italiana, altro che calzini.
    Credo che Tremonti rappresenti un perfetto caso di trasformismo, e la sua dichiarazione non sia casuale ma miri a tenersi buono qualcuno in caso di probabili temporali.
    Ti faccio anch’io i complimenti su questa lucida descrizione che mi trova in sintonia, ma visto che la proizione pubblica più evidente del tuo impegno politico è rappresentata da Ignazio Marino e visto che le primarie si avvicinano mi chiedo:
    che ne pensa Marino della tua posizione?
    L’ha fatta sua?
    Ma sopratutto l’ha pubblicamente diffusa come sua?
    Ti chiedo questo perchè purtroppo tolti gli slogan “Mercato del lavoro che premia conoscenze e qualità della persone” (che sono sulla bocca di tutti), un domani se la tua linea passasse e Marino fosse segretario del Partito Democratico, non sarebbe difficile trovare un accordo con il PDL per abolire l’art. 18, l’assurda difesa del “posto di lavoro” e la rappresentanza sindacale obbligatoria.
    Il problema però sarebbero i sindacati che puoi ben immaginare chiamerebbero in piazza la creme degli indifendibili urlando al colpo di stato.
    Insomma la solita pantomima italiana; “facim ammuina” così tutto rimane così com’è.
    E in questo caso che farebbero Marino/Scalfarotto?

  6. scalpha ha detto:

    Zanna bianca,
    sì, queste sono le posizioni della mozione: basta leggerne il testo. Aggiungo che Pietro Ichino è capolista per Marino nel collegio centrale di Milano.
    Ivan

  7. Zanna Bianca ha detto:

    Rettifico il mio intervento di su al 3° rigo per errata digitazione:

    “..che vale anche per te che NON li hai delegati ma anche per il tuo collega sfalzino..”

  8. Zanna Bianca ha detto:

    Grazie 1000 della risposta.

  9. Fede ha detto:

    Come al solito, condivido quello che dici, ma non so quanto sia praticabile la via di mezzo, qui e ora. I due presupposti che indichi sono lontani anni luce e tra i più difficili da raggiungere, proprio perchè non siamo in una società avanzata. O almeno non abbastanza per supportare la flessibilità lavorativa o garantire uguali diritti a chi è diverso. Lo dico con rammarico ma non per questo penso sia giusto smettere di combattere per ciò in cui si crede, anche se a volte è dura. Come si fa a non arrendersi? Come si vince una battaglia culturale?

  10. Paolo ha detto:

    Ma a parte fare dicharzioni Tremonti e il PresDelCons cosa fanno o cosa pensano di fare per il ‘posto fisso’? (a prescindere da quello che intendono come posto fisso….)
    A me sembra solo demagogia vuota e inutile
    E a conferma, il gruppo Mediaset (la gloriosa azienda del PresDelCons) non assume praticamente nessuno da anni…..
    Demagogia vuota, inutile e ipocrita

  11. cicciolo ha detto:

    Ti faccio un mare di complimenti per la lucidità delle tue riflessioni..davvero rivoluzionarie per l’Italia.
    Domenica ci sono le primarie e io sto aspettando che il PD mi dica dove andare a votare in quanto lavoratore fuori sede a Bologna..ho fatto la richiesta,ma per adesso nessuna risposta.
    E questa volta,niente voto utile..ma un voto convinto alle idee!
    ciao