6 Novembre 2015

Di fatica, responsabilità e bottoni (un post lungo)

Appunti

Mercoledì sera sono stato alla presentazione del nuovo libro di Michela Marzano, “Papà, mamma e gender”. Come al solito Michela porta un enorme contributo di profondità nelle riflessioni filosofiche sulla vita, che sono molto più prossime all’attualità politica di quanto si possa pensare.

Durante la presentazione abbiamo anche avuto un mini-dibattito sul quale mi vorrei un attimo soffermare – perché è la logica conseguenza di alcune riflessioni che ho negli ultimi tempi messo qui sul blog – che ci ha visti in parte in accordo totale e per un altro verso su posizioni contrapposte.

La parte sulla quale ci siamo trovati in accordo, e mi ha fatto molto piacere registrarlo, è relativa al ruolo della società civile nel dipanarsi del dibattito sulle questioni dei diritti (ne ho scritto qui). Anche secondo Marzano il ruolo di spinta della società (media, associazioni, singoli cittadini, opinione pubblica) è fondamentale per spingere la politica verso (o contro) l’approvazione di leggi sui temi dei diritti individuali. E l’analisi sulla Francia – paese dove Michela vive ancora nel fine settimana e dove ancora insegna all’Università -, luogo di nascita de “La Manif pour Tous” e Paese al centro di un riflusso di estrema destra molto sensibile, è stata a dire il vero anche piuttosto inquietante. Stiamo tornando indietro? Si è chiesta Marzano durante la presentazione.

Il secondo punto, quello del disaccordo, ha avuto invece al centro la recente legge sulla continuità affettiva dei bambini dati in affido. Una legge che ho criticato anche io stesso qui qualche giorno fa, perché consente la continuità affettiva ai soli bambini dati in affido a coppie idonee all’adozione (quindi solo regolarmente coniugate). I bambini dati in affido a singoli o a coppie non coniugate saranno destinati invece, nonostante la nuova legge, a continuare a vivere il trauma del distacco dalle famiglie affidatarie.

Marzano è stata una dei due soli deputati che ha votato contro la legge e, durante la presentazione del libro, ha rivendicato con forza la propria posizione. In questo modo, dice lei, si introduce una discriminazione tra i bambini e io non posso, con il mio voto, legittimare questa discriminazione. Non posso, con il mio voto, sostenere una legge che non ci fa andare avanti, ma indietro.

Al contrario, nel mio post di qualche settimana fa, pur esprimendo le mie pesanti perplessità, io invece scrivevo: “Ho imparato sulla mia pelle che una legge imperfetta è meglio di nessuna legge, e quindi capisco bene che chi ha lavorato a questo provvedimento con amore e passione, come per esempio la mia amica Francesca Puglisi, abbia preferito proteggere almeno la maggioranza dei bambini quando dolorosamente ha realizzato che non era proprio possibile proteggere tutti i bambini.”

Il punto del disaccordo sta tutto qui, nella distanza che sta tra quelle che Max Weber definì l'”etica dei principi” e l'”etica delle responsabilità”.

Se si ragiona secondo l’etica della responsabilità, e uso sempre l’esempio della legge sulla continuità affettiva per spiegarmi, si dice: “E’ vero che sarebbe stata di gran lunga preferibile una legge che coprisse tutti i bambini, ma se con questi numeri in parlamento riesco a fare una legge che copre l’80% dei bambini, dando loro la continuità affettiva, preferisco portare a casa questo pezzo di copertura anziché lasciare stare tutto com’è”.

Nella posizione di Michela Marzano quello che si fa prevalere invece è il principio. Per principio, io non voto una legge che introduca una discriminazione. Costi quel che costi, anche se sono costretto poi a mantenere lo statu quo ante, dunque: “Meglio nessuna legge che questa legge”.

In sostanza, se non riesco a fare una legge che dia a tutti i bambini la continuità affettiva, allora meglio che nessun bambino abbia la continuità affettiva. Così faccio salvo il principio, e cosa sarà di questo provvedimento non è affar mio: se ne parlerà alla prossima legislatura, sempre che i numeri siano più favorevoli di quelli di oggi, altrimenti più avanti e forse mai più. Io son qui per far la guardia ad un principio, questo è il mio ruolo, tanto vi dovevo, saluti.

E’ una scelta difficilissima, vi dirò. La cosa più difficile che succeda nella vita del parlamentare. Perché tutti, in questo caso io e Michela, siamo totalmente d’accordo sui principi. Quello su cui non siamo d’accordo è l’impatto nella vita delle persone della nostra coerenza su quei principi.

E’ chiaro che sul piano politico e sul piano pubblico mantenere un profilo duro e puro è cosa più semplice da spiegare. Ero contrario a questo aspetto della legge, per me la legge non era più votabile, non la voto, punto. Il problema sta però nella responsabilità che si porta sia nei confronti di chi quella legge aspetta, sia più in generale nei confronti del progresso della società. Se si aspetta di avere le condizioni per poter approvare una legge che non sia frutto di un qualche compromesso, si accetta appunto implicitamente, e anzi in un certo senso si rivendica, la propria indifferenza circa l’eventualità che per questa ragione la legge non si faccia mai.

La legge sul divorzio, quando fu approvata, richiedeva che le coppie, per divorziare, dovessero essere separate legalmente per sette lunghissimi anni. Sette anni. Una cosa assurda. Ma avremmo rinunciato per questo alla legge sul divorzio? La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza prevede quell’obiezione di coscienza che ne rende assai complicata l’applicabilità concreta in molte regioni. Ma avremmo fatto bene all’epoca a votare contro la legge sull’aborto per questo aspetto della legge stessa, e a lasciare che le donne morissero ancora per anni di aborto clandestino?

Scegliere l’etica della responsabilità non è dunque per niente facile. Innanzi tutto perché devi accettare un compromesso, e questo non fa piacere a nessuno. Pigiare quel bottone in aula è durissimo se quella è la decisione della razionalità, ma il cuore ti direbbe di non farlo. In secondo luogo perché la logica del compromesso è impopolare: la narrazione pubblica si nutre di posizioni nette: o di qua o di là. La democrazia parlamentare, e il ruolo della maggioranza in particolare, richiedono invece necessariamente il coagularsi di voti su soluzioni che nella maggior parte dei casi sono il meno peggio per tutti invece che il meglio assoluto per qualcuno.

Ora, mentre su tutti gli argomenti questo esercizio indigesto alla fine in qualche modo si riesce ad accettare, ci sono due ambiti in cui questo risulta veramente difficilissimo. Il primo è quello delle materie che hanno a che fare con i grandi valori della vita: quelli che, sbagliando, vengono chiamati i temi etici. Lì, fare un compromesso è quasi impossibile. Mettere da parte i miei valori, la mia visione della vita, le mie più profonde convinzioni su ciò che è bene e ciò che è male per farmi carico della responsabilità di una moltitudine enorme e anonima, è particolarmente complicato. Sono leggi in cui la difficoltà di mettere da parte il sé non è compensato dall’onore di assumere il ruolo del rappresentante dell’intera nazione.

Il secondo ambito è quello delle regole del gioco. Anche lì c’è un principio in ballo, ed è quello di cercare di costruire il sistema di regole più vantaggiose per la propria parte. Questo è stato il motivo per cui ci sono voluti 10 anni per fare la nuova legge elettorale. Tutti dicevano di volerla fare, ma ciascuno voleva fare un’unica e sola legge elettorale: la propria. Per fare un esempio chiaro di quello che dico basti guardare l’atteggiamento di 5Stelle sull’Italicum col premio di lista: strumento del demonio fino a quando non è uscito il primo sondaggio che dà M5S in vantaggio al ballottaggio. Da quel momento il premio di lista è diventato prezioso come il tesoro di San Gennaro: giù le mani dal premio di lista hanno detto a un tempo Beppe Grillo, Toninelli e tutto lo stato maggiore dei grillini.

Chiaro che l’etica dei principi non si dà l’obiettivo di governare. Con l’etica dei principi si prescinde assolutamente dal tentativo di risolvere un problema: con essa si intende affermare piuttosto – e legittimamente – la propria visione della realtà.

Si comincia del resto a far politica proprio per quello – combattere per l’affermazione dei propri ideali – e poi si scopre che voler affermare esclusivamente i propri ideali è l’antitesi della politica: perché l’etica dei principi è per definizione statica, monolitica, inossidabile, allergica al compromesso. La politica è invece esattamente il contrario: andare sì in una certa direzione, ma cercando soluzioni, trovando mediazioni, provando a portare a casa il risultato migliore possibile, non quello ideale. E’ la fatica costante del riformismo contro la passione fiammeggiante del massimalismo. Forse è proprio per questo che si dice spesso che in politica si nasce incendiari e si muore pompieri.

Naturalmente si può esercitare l’etica dei principi molto meglio dall’opposizione che dalla maggioranza. Salvo il caso che la maggioranza non abbia numeri sufficientemente ampi da consentire a qualcuno di affermare i propri principi grazie alla disciplina dei propri colleghi. In questo modo si salva la legge e si salva pure la faccia (propria): ricordo un ex collega del PD che alla rielezione di Napolitano disse che lui non lo avrebbe votato.

Se non fosse stato rieletto il Presidente saremmo probabilmente finiti nella peggior crisi istituzionale dalla nascita della Repubblica. Ma naturalmente l’eventualità era esclusa dal fatto che, proprio per evitare quella crisi, i numeri a favore del Presidente uscente erano enormi. Ma questo consentì al nostro ex collega di rilasciare molte dichiarazioni ai telegiornali della sera e di darsi un’aura assai romantica di rivoluzionario. In realtà sapeva benissimo che il Paese sarebbe stato messo comunque in sicurezza da un sacco di colleghi forse oscuri, ma più responsabili di lui.

L’etica dei principi, inoltre, non ha vincoli di costo. Stabilire un reddito di cittadinanza universale che dia a tutti gli italiani 800 euro al mese è un sicuramente un bel principio. Trovare i mezzi per farlo, poi, è questione nella quale non ci si addentra perché l’etica dei principi non prevede che ci si occupi delle conseguenze del proprio agire: una volta affermato il principio, il problema è chiuso.

Parlavo qualche giorno fa del “mestiere della politica” (la politica come professione, avrebbe detto sempre il buon Weber). Mi riferivo anche a questo. Se la politica è provare a cambiare le cose, bisogna accettare di prendersi le responsabilità di chi assume le decisioni in un luogo come il parlamento, che è destinato fatalmente a trovare punti di caduta che sono il frutto di un qualche dibattito. Se invece fare politica è soltanto affermare un’idea, magari la migliore del mondo ma destinata a restare soprattutto un principio senza la sfida del test di realtà, allora questo si può fare anche da molte alte posizioni. Scrivendo, predicando, andando in televisione, parlando in piedi su un banchetto nello speaker’s corner di Hyde Park.