22 Ottobre 2015

Gli “alleati”

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Continuo la linea del mio ragionamento sulla sostanziale indifferenza della società civile italiana sulla questione dei diritti LGBT con un esempio clamoroso che proviene dalla Gran Bretagna dove a lungo ho vissuto e lavorato. Nel mio ultimo post facevo appello ai giornali e agli opinion leader della sinistra, oggi passiamo alla finanza e alla business community. Il cambiamento, come vedremo, passa certo per le decisioni e le leggi che fa la politica, ma può e deve passare anche dall’impegno di un monumento del capitalismo come il Financial Times (e in Italia dunque da un posto tipo “Il Sole-24 ore”).

In Gran Bretagna, infatti, la questione dell’uguaglianza formale tra tutti i cittadini è stata risolta sì con provvedimenti normativi – che hanno affermato il principio secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge anche indipendentemente dal loro orientamento sessuale e dalla loro identità di genere -, ma anche attraverso l’ovvio riconoscimento, da parte della società nel suo complesso, del fatto che le persone omosessuali esistono: vivono, lavorano, sognano e si realizzano (o almeno ci provano) esattamente come tutte le altre persone.

Tra le altre cose, le persone LGBT lavorano, e concorrono pro capite alla produzione del reddito nazionale. Esse esistono nei luoghi di lavoro, dove esprimono talento e capacità come le persone eterosessuali. Il capitale umano è il principale fattore di successo di un’impresa e il talento non si presenta solo nella forma del maschio tra i 40 e i 50, bianco, etero, cristiano e perfettamente abile. Se ne sono accorti i datori di lavoro, che sono attenti ai risultati delle proprie aziende e che fanno dunque in modo di garantire una cultura dell’inclusione e del rispetto nei luoghi di lavoro (lo chiamano “Diversity management”). Se ne sono accorti dunque anche i dipendenti LGBT che – a queste condizioni, sapendo di trovarsi in un ambiente nel quale non hanno nulla da temere – non devono nascondersi (e infatti non si nascondono) con capi, colleghi e collaboratori.

E’ l’accettazione del principio che le persone LGBT non si manifestano solo al Pride, ma sono dappertutto. Certo: decidono di manifestarsi o non manifestarsi a propria discrezione, in modo inversamente proporzionale alla quantità di pericolo percepito. Se l’ambiente è “safe” come dicono gli inglesi, non c’è nessun bisogno di pretendere di essere ciò che non si è. Questo è il principio per cui io diffido di tutte le comunità in cui nessuno, ma proprio nessuno (tipo i gruppi parlamentari di 5Stelle) condivide con gli altri di essere gay o lesbica. Non significa che siano tutti etero, significa solo che i gay e le lesbiche presenti hanno tastato il terreno e hanno deciso che è meglio stare ben coperti e al riparo dai rischi che hanno personalmente verificato approfittando della propria invisibilità.

A Londra le cose vanno in un altro modo e dunque non un giornale qualsiasi, ma appunto il Financial Times, ormai da tre anni pubblica la lista dei 100 business leaders LGBT, dei 30 emergenti e dei 30 leader “alleati”. I primi sono i dirigenti di azienda o manager gay, lesbiche bisessuali o trans che il panel dei valutatori considera più influenti nel paese, i secondi sono nominati tra i più brillanti tra i giovani, gli “alleati” sono invece quei leader eterosessuali che nelle proprie aziende lavorano per assicurare che le aziende si rinforzino come datori di lavoro di eccellenza per le persone LGBT.

Ovviamente, tutto questo produce un ritorno di immagine molto forte. Basti vedere quali e quanto prestigiosi sono i marchi coinvolti in queste classifiche, e quanto sono importanti i nomi dei capi azienda che concorrono per essere i numeri uno della lista degli “alleati”: il vincitore quest’anno è un tale Mark Zuckerberg, al numero 2 c’è un certo Richard Branson, ai numeri 3, 4 e 5 i CEO di Dow Chemicals, Bloomberg e JPMorgan Chase.

A Londra lavoravo per Citi. La mia ex azienda quest’anno ha due persone nella lista: Al numero 28 della lista dei “Leading 100 LGBT Executives” c’è Bob Annibale, capo globale del business di Citi che si occupa dello sviluppo economico delle comunità meno avvantaggiate (per capirci, cose che hanno a che fare anche con il microcredito). Al numero 17, invece, della lista dei “Leading 30 Ally Executives” c’è Jim Cowles, che è il CEO di Citi per Europa, Medio Oriente e Africa. Sono colleghi con i quali ho lavorato da vicino: in particolare, sono stato il Direttore HR di Jim quando lui era a capo del business di Equities EMEA, e sono molto orgoglioso di loro e anche della loro decisione di inviare una comunicazione a tutti i dipendenti di Citi per celebrare la la notizia come un’importante traguardo per tutta l’azienda.

Ci sono anche altri amici nella lista dei 100 Executives: al numero 5, Claudia Brind-Woody, Vice Presidente e Managing Director di IBM e moglie della mia ex collega Tracy Brind-Woody, che pure lavora a Citi. Ho lavorato molto con Claudia quando ero Direttore Esecutivo di Parks (l’organizzazione italiana che lavora su questi temi insieme ad alcune delle principali aziende italiane e multinazionali operanti nel nostro paese) e IBM decise di iscriversi alla nostra associazione.

Al numero 50 c’è Matthew (Matt) Hubbard, mio ex collega a Citi e oggi Direttore HR del Commercial Banking a Lloyds. Al numero 83 c’è Nicholas Creswell, che lavora per Thomson Reuters come VP nel Performance e Talent Management: ci siamo conosciuti molto tempo fa, quando io ero HR Director a Citi e Nick faceva il suo MBA a London Business School. Con Nick, e suo marito Nicholas, siamo ancora oggi grandi amici personali.

Congratulazioni a tutti i miei amici oltremanica, dunque, per il brillante risultato.

Aspettiamo ora con pazienza il giorno in cui “Il Sole 24 Ore” farà la lista dei Top 100 Executives LGBT delle nostre imprese e anche quella degli “alleati”. Quando vedremo Marchionne, Messina di Intesa San Paolo, Mario Greco di Generali e Diana Bracco sfidarsi per il primo posto tra i sostenitori dei propri dipendenti LGBT, allora sapremo che le cose sono veramente cambiate.