24 Febbraio 2006

Tibetani contro le Olimpiadi a Pechino

Diritti

La tenda è ospitata in uno spazio messo a disposizione dalla circoscrizione, fuori dal grande passaggio dei turisti e degli atleti dell’Olimpiade. Eppure il messaggio sta passando, con difficoltà, come sempre, ma con forza: da nove giorni tre esuli tibetani non toccano cibo, vivono in una tenda nel cortile di san Pietro in Vicoli a Torino e vogliono approfittare delle Olimpiadi invernali per ribadire che i prossimi Giochi estivi di Pechino si faranno in un paese che non rispetta i diritti umani.
La Cina ha ottenuto i Giochi del 2008 e farà passare la fiaccola, simbolo di pace e di fratellanza, in quel Tibet, di cui disconosce i diritti, che ha annesso con la violenza e che da anni sottomette incarcerando e torturando i dissidenti.
Palden Gyatso, 75 anni, detenuto per motivi politici in Cina per 33 anni, liberato grazie all’intervento di Amnesty Italia, Tamdin Chonphel, vice presidente della comunità tibetana in Italia e Sonan Wanpdu, presidente regionale dell’associazione Tibetan Youth Congress, negli ultimi nove giorni hanno solo bevuto acqua. La tenda è una sistemazione di fortuna, con tre brandine e dei pannelli di polistirolo per terra per mantenere il calore, ma ci sono computer portatili, videocamere e macchine fotografiche: la loro battaglia si combatte soprattutto via internet, attraverso tre siti (www.tibetanyouthcongress.org, www.italiatibet.org e www.dossiertibet.it) sui quali vengono diffuse notizie sulla protesta e arrivano messaggi di solidarietà da tutto il mondo.
“Non toccheremo cibo finché non otterremo di incontrare i membri del Comitato olimpico – dice Tamdin Chonphel – vogliamo attenzione sulla popolazione tibetana”. Mercoledì Chonphel ha cercato di esporre uno striscione sulle violazioni dei diritti umani della Cina all’Oval, durante la gara femminile dei 1500 metri, ma è stato bloccato. “Aspettiamo da 45 anni che il mondo si accorga di noi, che appoggi la nostra causa – lamenta – la storia del Tibet e dell’occupazione della Cina è conosciuta, anche grazie al Dalai Lama, ma nessun governo ci dà veramente appoggio. I giovani in Tibet cominciano a vacillare, la logica della non violenza a molti non sembra più l’unica applicabile. Mi vengono i brividi quando sento qualcuno che si chiede se anche noi non dovremmo tirare le bombe per essere ascoltati”.
Palden Gyatso ha gli occhi socchiusi, prega. E’ il più anziano, ma sta sopportando bene il digiuno, purtroppo è stato “allenato” dai 33 anni di prigionia. “Non sarò mai stanco di far conoscere la storia del mio paese – dice – credo fermamente nella non violenza quindi vado avanti su questa strada. A 28 anni ho manifestato per dire che il Tibet è dei tibetani e la Cina è dei cinesi. Per questo sono stato 33 anni in carcere, torturato ogni giorno. Io non odio i cinesi, sto facendo lo sciopero della fame anche per loro, perché non solo il Tibet è oppresso, ma anche la Cina. Quando i Giochi estivi furono assegnati a Pechino si disse che questa decisione avrebbe contribuito a migliorare il rispetto dei diritti umani. In realtà nulla è cambiato, anzi: altri monaci sono stati incarcerati e altri bambini deportati. Facciamo lo sciopero della fame perché vogliamo che ci si renda conto che a Pechino non può esserci vero spirito olimpico”.
Il Comitato olimpico fa orecchie da mercante e nessun rappresentante del Cio si è fatto vedere. La protesta dei tre tibetani, visti anche i precedenti, sembra senza speranza. Ma loro sono determinati ad andare avanti: “Anche se il corpo si indebolisce il nostro spirito è forte”, dice Gyatso, che poi chiude gli occhi e si rifugia nella meditazione. “Senza quella non potremmo resistere” osserva Chonphel. Ma i medici che li assistono sono più pratici: “Sono deboli e hanno perso peso – dice Tenzin Thupten, che tiene sotto controllo i tre con il dottor Viale – abbiamo un’auto qui vicino, siamo sempre pronti al peggio”.

(Fonte: Repubblica.it, 24 febbraio 2006)