31 Dicembre 2005

Donne: o madri o lavoratrici

Diritti

Una cosa sono i numeri. Un’altra le voci. E fa un certo effetto guardare chi racconta – perché c’è passat – la storia di un’altra Italia. Che umilia e discrimina chi vuole diventare madre; che emargina e espelle chi ha l’ardire di mettere al mondo un secondo figlio. Nel paese con una delle legislazioni più avanzate in fatto di maternità e dai congedi parentali democraticamente estesi ormai anche ai padri, nel paese dove le coppie dichiarano di coltivare il sogno di una famiglia numerosa, vivono le donne con uno dei tassi di fecondità più bassi al mondo. Forse perché al di là delle leggi e delle belle dichiarazioni d’intenti, ogni ragazza sa che da noi, se vuole avere un bambino e lavorare contemporaneamente, deve essere disposta a pagare a volte un prezzo altissimo. ……In Italia, il tasso di occupazione nella fascia 29-49 anni è pari al 56% per le donne senza figli, al 53.6% per le donne con un figlio, al 47% per quelle con due figli, al 33.7% per chi ne ha tre o più; il 20.1% delle madri occupate al momento della gravidanza, non lavora più dopo il parto: nel 69% dei casi la donna si è licenziata, nel 23.9% il contratto era scaduto e nel 6.9% è stata licenziata.
(Fonte: la Repubblica, 1 dicembre 2005)
E’ possibile, come risulta dallo studio tedesco riportato da Repubblica qualche giorno fa, che le donne italiane siano effettivamente le meglio pagate d’Europa, al confronto con i loro colleghi maschi. La legislazione italiana sulla parità di trattamento sul lavoro e sui congedi parentali è davvero avanzatissima e da tempo, rispetto a quella di altri paesi europei. E’ forse proprio per questo che in Italia pochissime sono le donne che lavorano e, quelle che lo fanno, sono impiegate prevalentemente nel settore pubblico, laddove cioè le normative vengono applicate nel modo più freddo e quindi necessariamente anche meno discriminatorio. Nel settore privato sono la regola i casi di discriminazione all’ingresso(le donne non vengono assunte, a meno che non si tratti di ruoli tipicamente femminili, come quello di segretaria) e quelli di autolicenziamento forzato atraverso mobbing o, più semplicemente, attraverso la firma, al momento dell’assunzione, di lettere di licenziamento da datare all’inizio di una gravidanza. Quando mia figlia frequentava la scuola materna, ben tre delle madri dei suoi venti compagni di classe erano state “autolicenziate” non appena si era palesata la loro gravidanza: questo nell’Italia degli anni novanta e nella civilissima Firenze. I modi per aggirare le garanzie previste dalla legge sono quindi molteplici.
Le conseguenze di tutti questi meccanismi discriminatori sono ben rappresentate dalle cifre, che danno il tasso di occupazione delle donne italiane senza figli, inferiore anche a quello della Spagna e ridicolo, se confrontato con quello olandese, che è dell’82%. Le olandesi, poi, continuano a lavorare anche con moltissimi figli (il 60.4% lavora con tre o più figli), invece le francesi con un figlio sono addirittura più occupate (75%) di quelle senza figli (71%). Che poi, una volta rinunciato alla famiglia e alla propria femminilità (che non si esplica solo nel fare figli, ma soprattutto in un diverso approccio ai rapporti con gli altri), alcune tra le poche che sono riuscite ad entrare nel mondo del lavoro, riescano a guadagnare molto e anche a ricoprire posizioni di responsabilità non è molto significativo, se la stragrande maggioranza, nel corso di ogni colloquio di lavoro deve, prima o poi, sentirsi rivolgere con tono mellifluo la fatidica domanda: “Ma lei ha intenzione di sposarsi e di fare dei figli, non è vero?”
Emilia Giorgetti