11 Ottobre 2015

A proposito di Roma

Appunti

Mi sono preso alcuni giorni per commentare la vicenda di Ignazio Marino. Avevo già scritto di Ignazio Sindaco di Roma quasi un anno fa, pochi giorni prima che scoppiasse la vicenda di Mafia Capitale: il post si chiamava “lasciatelo lavorare” e diceva quello che penso di lui da sempre. Che una persona con quelle qualità (intelligenza, cultura, integrità, estraneità ai giri dei soliti noti) andava utilizzata come una risorsa straordinaria per far uscire Roma dalla palude e protetta come tale.

Ho seguito le ultime vicende con la sofferenza di uno legato a Marino, oltre che da molte battaglie comuni, anche da un grande affetto personale. Così come sono legato da amicizia antica e profonda ad alcuni dei suoi assessori che conosco bene e so essere persone di altissima levatura e capacità: in particolare Alessandra Cattoi, Marta Leonori ed Estella Marino. Hanno fatto tantissime cose, alcune coraggiosissime come la lotta all’abusivismo nel commercio con Marta e talune addirittura storiche – penso al lavoro di Estella sui rifiuti a partire dalla chiusura della famigerata discarica di Malagrotta: il buco nero in cui i romani hanno per decenni buttato tutta la loro immondizia senza nessuna particolare preoccupazione per l’ambiente e senza uno straccio di progetto sul tema della sostenibilità del ciclo dei rifiuti.

Ma da quel poco di distanza fisica che c’è tra il Campidoglio e i palazzi del Parlamento e del Governo dove lavoro mi sono anche chiesto con crescente angoscia come si potesse gestire una città così complicata e fare azioni di discontinuità così profonda con il passato senza curarsi di costruire una rete di consenso intorno al proprio agire. La cosa che mi ha veramente colpito in questi anni è stata l’apparente indifferenza mostrata rispetto alla ricaduta di immagine del proprio lavoro, come se la bontà delle proprie intenzioni e la robustezza intrinseca dei propri progetti e delle proprie idee potesse essere sufficiente a ignorare sostanzialmente il rapporto sentimentale (passatemi il termine) tra l’amministrazione e la città.

Vivo a Milano da più di venti anni e Milano è la mia casa. Anche qui si voterà l’anno prossimo e, con l’uscita di scena di Pisapia, mi sono spesso trovato a interrogarmi sulla figura e le caratteristiche di un sindaco, specie in un sistema di elezione diretta come quella che attualmente utilizziamo per scegliere i nostri primi cittadini. Ebbene, tra le primissime qualità che mi sono venute in mente c’è sempre stata la capacità del Sindaco di essere il capo della comunità, la figura in cui riconoscersi e identificarsi in quanto cittadini. Una specie di pastore civico, di padre, di guida. Il ruolo che Giuliano ha plasticamente interpretato il giorno dopo l’inaugurazione di Expo, quando si mise alla testa di un corteo senza bandiere mentre i milanesi riparavano la propria città dalle scritte e dalle devastazioni dei black bloc. Quel giorno Giuliano Pisapia ha convalidato l’elezione politica di qualche anno prima e l’ha trasformata nella presa di possesso di un’autorità morale. Ci vuole tempo e non succede a tutti, per questo è importante che al primo mandato poi ne segua un secondo, ma questa è già un’altra storia e non voglio divagare.

Se Marino e la sua giunta hanno qualcosa che gli si può rimproverare è stato proprio questo aver fatto decine di cose giuste, ma dando l’impressione di farle come fossero un’avanguardia separata dal corpo e dal cuore della città. Come ignari delle conseguenze dolorose che ogni cambiamento richiede e senza avere il calore e l’empatia necessarie a dare il senso di una sfida collettiva. Non si spiegherebbe altrimenti l’impopolarità così diffusa, aspra e tagliente che ha circondato un esperimento politico che io credo avesse tutte le ragioni per essere portato avanti e tutte le caratteristiche per avere successo.

Non è una mancanza lieve. Perché non si può governare una città, e una città così grande e complessa, da una cittadella assediata. Questo non vuol dire che non si debbano disturbare i poteri forti o che si debba rinunciare ad attaccare le rendite di posizione. Ma si deve avere la saggezza di restare consapevoli del fatto che in democrazia la propria forza sta sempre nel consenso che si riesce a costruire, che i rischi che si decide di accollarsi devono essere proporzionati allo sforzo di copertura politica da fare per non farli apparire insostenibili e velleitari, che il dolore del cambiamento non può essere imposto a tutti nello stesso momento a meno che non ci si sia organizzati molto bene a gestire la naturale reazione che viene da chi è toccato nei suoi interessi, piccoli o grandi che siano.

C’è una vecchia polemica tra chi crede che in politica la comunicazione sia solo vacuità e forma, una cosa che la avvicina pericolosamente alla pubblicità, e chi invece pensa che senza la comunicazione la politica non abbia particolare senso di esistere: fare senza farsi capire non serve a gran che. A Roma abbiamo visto ottime persone fare un ottimo lavoro, ma evidentemente non è bastato.