25 Luglio 2015

Quanto paghiamo e in cambio di cosa

Appunti

Il piano di riduzione del carico fiscale annunciato da Matteo Renzi a Milano sta facendo discutere, come è giusto che sia. Si discute della reale possibilità di reperire le risorse sufficienti, dell’opportunità di rallentare la diminuzione del debito pubblico, della quantità e della qualità dei tagli alla spesa pubblica che l’alleggerimento del carico fiscale inevitabilmente comporta.

Sono tutte riflessioni e valutazioni degne di rispetto, non foss’altro perché la scienza economica e quella degli equilibri di bilancio sono tutt’altro che scienze esatte. Tuttavia mi hanno colpito alcuni tòpoi della discussione che mi paiono obbedire più allo schema della coazione a ripetere che a quelli del confronto.

Parto dal più evidente: l’accusa a Renzi di avere ripreso alcune tesi e proposte berlusconiane. Non c’è dubbio che l’abolizione della tassa sulla prima casa è un cavallo di battaglia del Cavaliere, ed è abbastanza curioso, in una democrazia matura, che non si debba dare attuazione ad una misura che si ritiene giusta solo perché la ritiene giusta anche l’avversario. A mio parere non ha senso discutere di una misura isolandola dal suo contesto. L’abolizione della tassazione sulla prima casa nel 2008, a crisi economica incipiente, non fu una grande trovata, come non lo fu la sua abolizione-bis, decisa dal Governo Letta (era una delle condizioni poste da Berlusconi per le larghe intese) dopo che il Governo Monti l’aveva reintrodotta.

La proposta di Renzi è in realtà parte di una più complessiva manovra spalmata lungo tutto l’arco della legislatura. Per questo ho trovato un po’ bizzarra la sollecitazione di Massimo D’Alema, che ha indicato una priorità più evidente nell’abbassamento delle tasse sul lavoro e sulle imprese. Bizzarra perché è proprio da lì che il Governo Renzi è partito: è stato un sostanzioso alleggerimento del carico fiscale la detrazione degli ottanta euro riconosciuta ai lavoratori dipendenti a basso reddito; ed è stata significativamente abbattuta l’Irap per le imprese, oltre alle note previsioni di sgravio contributivo per le nuove assunzioni.

La manovra sulla prima casa, di cui deve ancora essere reso noto il dettaglio tecnico, giunge quindi nel mezzo del cammin di nostra vita, e con finalità abbastanza trasparenti di sostegno al ceto medio. Nell’idea del premier le riforme possono innescare la crescita solo se si rafforza in modo consistente la domanda interna. Essendo escluse dall’impegno a tenere i conti in ordine l’idea di politiche di sostegno fondate sul tax&spending, rimuovere una tassazione pressoché universalistica e immettere in circolo risorse obbedisce alla stessa idea anticiclica dei provvedimenti ricordati.

Ancor più lunari mi sono parsi i rilievi sulla mancanza, nel discorso del premier, della lotta all’evasione fiscale. Non solo perché non credo che il Governo possa essere sospettato di lassismo su questo tema, ma perché mi appare essere la nostalgia di un esorcismo. La lotta all’evasione fiscale, quella vera, si fa con la riforma del fisco e con la riforma della pubblica amministrazione; cioè mettendo in campo insieme norme e strumenti, superando l’antica schizofrenia di varare misure draconiane che poi restano sostanzialmente inapplicate nel pantano dei nostri uffici.

Siamo tutti persuasi che il miglioramento e l’affinamento di questi strumenti porterà nelle casse dello Stato introiti maggiori, e speriamo molto maggiori. Sicuramente non mancherà il modo di utilizzarli (in particolare per misure di contrasto alla povertà, autentico dramma nazionale). Ma incassiamoli prima, non li evochiamo come idoli sordi.

La sinistra ha un’antica tradizione di difesa della loyalty fiscale, per l’ovvia ragione che si tratta della più grande leva di redistribuzione sociale. Ricordiamo tutti il paradosso di Padoa Schioppa: pagare le tasse è bello. Ma il problema di quali e quante tasse si pagano, ed in cambio di che, è aperto per tutti. Penso che Matteo Renzi faccia benissimo ad affrontarlo.