8 Maggio 2015

Essere di sinistra (e vincere le elezioni)

Appunti

A settembre del 2010 Ed Miliband sconfisse suo fratello David nella gara per la leadership del Labour. Per un pelo: 50,65% dei voti per Ed, 49,35 per David. David, considerato un continuatore della terza via blairiana, dopo aver vinto i primi tre turni di voto, perse il quarto grazie all’appoggio fondamentale del sindacato a suo fratello minore. Sindacato che si era schierato compatto a favore di Ed poiché lo aveva riconosciuto quale sostenitore della continuità dei “valori della sinistra” da cui il partito guidato da Blair (e quello che sarebbe stato fosse stato eletto David Miliband) si era – a loro avviso – evidentemente allontanato.

Non so perché, ma in queste ore la vicenda della corsa alla leadership dei laburisti da parte dei due fratelli Miliband mi è sembrata avere alcuni interessanti punti di contatto con la nostra attualità domestica. Un partito di sinistra che si interroga su cosa sia essere “di sinistra”, la scelta di un leader che ritorni ai valori percepiti come più identitari, gli effetti di questa scelta sul piano elettorale. La sconfitta di ieri del Labour mi ha ricordato molto la sconfitta del PD nel 2013, seguita alla scelta del socialdemocratico Bersani come leader al posto di Renzi il liberal-democratico. E il dibattito tra i laburisti del 2010 mi ha ricordato molto quello che si anima oggi nel PD, incluso naturalmente il tema cruciale del rapporto col sindacato.

Il responso delle urne a Londra sembra confermare che una sinistra di stampo più laburista e socialdemocratico tende a rassicurare fortemente il proprio elettorato sul piano dell’identità e del sentimento, ma esprime una capacità molto inferiore in termini di espansione verso nuove aree di consenso. La caratterizzazione identitaria tende a lasciare il centro sguarnito e a favorire la destra in termini elettorali, tant’è che, mentre scrivo, i Conservatori sono ancora speranzosi di raggiungere da soli la quota di 326 seggi, pari alla maggioranza assoluta. Questo per dire che anche in assenza del fenomeno del Partito nazionalista scozzese, che ha cancellato i laburisti dalla cartina geografica nel nord dell’isola, il risultato sarebbe stato forse meno doloroso nei numeri ma non sarebbe cambiato politicamente nella sostanza.

Il balzo del PD dal 25% del 2013 al 41% delle europee 2014, e il permanere del partito in tutti i sondaggi a livelli che sono sempre sopra il 37% anche dopo le europee e anche in presenza di decisioni non necessariamente popolari da parte del Governo, sembra dimostrare anche da noi che una linea più assimilabile alla terza via, di stampo riformista e liberal-democratico, sia assai più in grado di intercettare gli umori e i consensi di una parte più ampia dell’elettorato.

E’ una riflessione che varrebbe la pena di condurre con un certo grado di profondità anche da noi: se la rivendicazione di una linea più radicale, come quella che malauguratamente ha portato Civati a lasciare il Partito Democratico, o anche semplicemente lo smarcarsi in modo netto dalle posizioni del governo non votando la fiducia – come hanno fatto Bersani, Cuperlo e Speranza – sia anche il modo per costruire per il futuro una proposta di governo per il Paese che sia in grado di risultare vincente nelle urne oppure no.