21 Marzo 2015

Al bar di Massimo

Appunti

Seguo con rispetto e attenzione la manifestazione della cosiddetta “sinistra Dem” a Roma. Come avviene da un po’ di tempo in qua, il punto di riferimento concettuale, se non organizzativo, di queste riunioni è Massimo D’Alema. È un fenomeno fin troppo ovvio. Piaccia o meno (e a me non piace molto) D’Alema è senz’altro una personalità di grande spessore ed acume, che parla oltretutto sulla scorta di un cursus honorum ragguardevole. Devo dire, peraltro, che non so se sia stato più irriverente l’auspicio di Matteo Renzi che si dedicasse a fare il nonno ai giardinetti, o se lo sia il ruolo di capofazione rancoroso che D’Alema ha assegnato a se medesimo.

Condivido il rammarico del nostro presidente Matteo Orfini per certi toni rissosi che non fanno bene a nessuno, ma sinceramente non credo sia quello l’errore peggiore che i miei amici “diversamente Pd” stanno compiendo. Intendo dire che il modo certamente aspro con cui D’Alema lancia determinate parole d’ordine è meno preoccupante dell’idea che sottendono. A cominciare da una certa concezione dell’essere minoranza. 

Essendo un appassionato frequentatore di minoranze, non provo alcun fascino per il conformismo, l’adesione al pensiero dominante, la salita sul carro del vincitore; ma penso che il dovere civile di ogni minoranza sia quello di cercare di smettere di essere tale, di impegnarsi al massimo per far trionfare, in leale competizione, le proprie idee e i propri principi. 

Non sarebbe male se il collante fra quanti intendono dar vita ad un’aggregazione fosse un po’ più ricco ed articolato della legittima asserzione “Renzi mi sta sullo stomaco”. Ed anche che i legittimi “no” che questo o quell’iscritto o dirigente del Pd pronuncia a gran voce contro questa o quella scelta del premier o del segretario del partito, fossero politicamente declinati con delle alternative coerenti e credibili. L’idea che la fase suprema dell’azione della minoranza debba consistere nell’ordire imboscate (che mi pare una traduzione abbastanza fedele dell’espressione “assestare colpi che, quando necessario, lascino il segno”) la trovo ben poco entusiasmante, non solo sotto il profilo della lealtà che in linea teorica si dovrebbe al proprio partito, ma anche della prospettiva politica. 

Perché su una cosa concordo con D’Alema: non è positivo che ci sia un’unica forza politica rilevante e non è positivo che questa forza politica rilevante abbia un solo possibile leader. Mi auguro sinceramente che i democratici che oggi vivono il loro partito con un qualche disagio, che ne disapprovano in tutto o in parte la condotta e la guida si attrezzino per un’alternativa, ingaggino una contesa, lancino una sfida. Non è difficile. Ricordate? È ciò che ha fatto Matteo Renzi, e tanti di noi con lui. Ma candidarsi al ruolo di minoranza permanente per riuscire occasionalmente a provocare qualche passeggero fastidio è progetto talmente misero che non riscuoterebbe credito nemmeno nei peggiori bar di Caracas.