12 Marzo 2015

La città vuota

Attività di governo, Governo Renzi, Riforme, XVII Legislatura

Ho letto con l’attenzione dovuta alla firma l’articolo di Valerio Onida un paio di giorni fa sul Corriere a proposito dell’Italicum e le ragioni che secondo l’illustre costituzionalista dovrebbero indurre a consentire l’apparentamento di più liste, in caso di ballottaggio, per assegnare il premio di maggioranza.

Per la verità non mi convince molto l’idea che un premio di maggioranza sia un vulnus costituzionale se lo guadagna un partito che –poniamo- vinca il ballottaggio da solo avendo ottenuto il 35% dei consensi, mentre diventi pacifica fisiologia democratica se quel partito si allea con un partito dello 0,5% Mi sembrano invece del tutto evidenti le conseguenze nefaste dell’introduzione dell’apparentamento. Sotto certi aspetti il meccanismo del porcellum, che almeno prevedeva che le coalizioni e i rapporti di alleanza fossero stretti preventivamente, ha il pregio di una maggiore chiarezza rispetto agli elettori. Invece, con la modifica proposta, ci sarebbe un primo turno in cui tutti i partiti sono l’un contro l’altro armati, per poi dar vita ad accordi tattici strumentali al fine di spartirsi la torta dei seggi “premiali” due settimane dopo.

Il punto è che le coalizioni di primo o di secondo letto sono una pura e semplice inesistenza: non presentano cioè nemmeno quel minimo di vincolo politico che la comune appartenenza a un partito dovrebbe comportare. Costruzioni artificiose che hanno permesso bizantinismi come la “doppia alleanza” di Sivio Berlusconi nel 1994, la “desistenza” di Rifondazione Comunista nel 1996, il confuso rassemblement dell’Unione nel 2006. Il sistema attraverso il quale la politica politicante dei ribaltoni e delle trattative, dei “vertici” e dei colpi di mano, delle compravendite e dei trasformismi celebrava la propria perpetuità.

Il professor Onida con grande acume e molti suoi epigoni meno brillanti cercano in sostanza di difendere quella che ritengono una pietra angolare dell’edificio costituzionale: l’idea che i Governi nascano in Parlamento e non nelle urne. Ma da questa corretta asserzione fanno discendere dei corollari totalmente infondati. Non c’è assetto democratico, infatti, nella quale sia posta una barriera o una distanza assoluta tra voto popolare e scelta dell’Esecutivo. Dove la legittimazione popolare di questo potere non sia garantita direttamente (come avviene nel semipresidenzialismo) è la costituzione materiale ad assicurare che il presidente del Consiglio sia automaticamente il leader del partito politico più votato (rectius, con più rappresentanti in Parlamento). Un legame che in un Paese come la Germania è così forte da fare di Angela Merkel il cancelliere indipendentemente dalla maggioranza parlamentare che la sosterrà.

Sotto l’apparenza della caducità ministeriale e governativa, anche la Prima Repubblica funzionava così: gli elettori non erano in condizione di sapere chi sarebbe stato il presidente del Consiglio il giorno dopo il voto. Ma potevano star certi che al Governo ci sarebbe stata la Democrazia Cristiana, restando da stabilire con quali alleati (e a che prezzo) avrebbe formato la compagine governativa. Non penso ci sia bisogno di particolare capacità di osservazione per comprendere che questo sistema è morto e sepolto insieme ai partiti di massa, al fattore K e all’inamovibilità del ceto politico.

Il combinato disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale non determina affatto quella “involuzione autoritaria” o quella liturgia dell’uomo solo al comando preconizzata da molte cassandre; tantomeno determina una mortificazione del ruolo del Parlamento (che è stata determinata, au contraire, dall’insostenibile farragine degli argomenti e dei procedimenti di legificazione). I partiti e i gruppi parlamentari restano centrali e contendibili, il potere di scioglimento della Camera resta conferito in esclusiva al Capo dello Stato, si raggiunge un equilibrio accettabile fra l’assunzione di responsabilità dei partiti e la singola scelta degli elettori.

Sono le riforme ideali, quelle che ci si aspetta siano in vigore nella città ideale del celebre quadro che taluni attribuiscono a Piero della Francesca? Direi di no; ed anche per questo è un bene che il professor Onida e i suoi valenti colleghi continuino a discutere, a riflettere e ad approfondire. Ma sono buone riforme, che a mio parere miglioreranno la qualità della nostra democrazia e –quindi- della vita dei nostri cittadini. Perché il problema della città ideale è che non ci abita nessuno.