2 Agosto 2014

Un giapponese a Bologna

Appunti

Il ricordo della terribile carneficina che il 2 agosto di trentaquattro anni fa spazzò via ottantacinque vite inermi alla stazione di Bologna dovrebbe indurre tutti quanti noi, cittadini di un’Italia meno plumbea di allora, non solo al cordoglio, ma al senso della misura. Quando si straparla di derive autoritarie e si aggrediscono con impressionante violenza verbale le istituzioni e i loro rappresentanti, bisognerebbe ricordarsi l’altissimo tributo di sangue che gli italiani versarono a chi voleva ad ogni costo che il nostro Paese fosse e restasse a sovranità limitata, e che la lunga stagione dei diritti, delle lotte per la giustizia sociale, del riscatto delle donne, dei ceti subalterni e dei giovani non passasse il segno.

Era l’Italia-ostaggio in cui servizi segreti d’Oriente e d’Occidente giocavano impunemente la loro partita con la complicità di apparati deviati e infedeli; in cui fiorivano intrighi nati oltreoceano ed oltrecortina, ma anche nella City londinese. Bologna fu il solstizio della lunga stagione degli anni di piombo, della strategia della tensione, dei tanti, dei troppi misteri ancora irrisolti, del segreto di Stato che ha dovuto aspettare i nostri giorni e questo governo per essere finalmente cancellato. È oltraggioso per quei morti, per quel sangue e per quei lutti azzardare un qualsiasi paragone fra quelle vicende e queste. La passione politica, che è in sé positiva, non deve mai cadere nell’iperbole che le fa oltrepassare il confine del senso della realtà e della decenza.

Devo a un amico con cui ho conversato su questi temi il ricordo di un aspetto, uno dei tanti, di quella giornata del 2 agosto 1980. Fra le vite schiantate alle 10,25 di quel giorno vi fu quella di Iwao Sekiguchi, uno studente giapponese, ventenne. Questo ragazzo si trovava a Bologna per una breve gita: era arrivato in Italia il 23 di luglio, aveva trascorso qualche giorno a Roma e poi aveva raggiunto Firenze, sede prevista per il suo mesetto di soggiorno, intervallato appunto da questa capatina a Bologna che gli risultò fatale. Un atroce capriccio del caso, certamente; una di quelle vicende fra il paradossale e l’amaro che ci dicono quanto possano essere beffardi i fili del nostro destino, e quanta verità ci sia nelle parole che, secondo Omero, Glauco rivolge a Diomede: “Quale delle foglie, tale è la stirpe degli umani”. Ma il punto che mi ha fatto riflettere è un altro.

Iwao non era un turista giapponese come tanti, di quelli che vedono l’Europa in una settimana e la mitragliano di flash per potersela guardare con comodo a casa perché mentre ci sono hanno troppe cose da fare e poco tempo. Era qui perché amava noi e il nostro meraviglioso Paese. Studente di letteratura in una delle migliori Università di Tokio, aveva lavorato sodo per ottenere dal Centro Italiano di Cultura della capitale nipponica la borsa di studio che gli sarebbe servita per il soggiorno. Amava la nostra cultura, la nostra storia, e voleva imparare la nostra lingua. E amava tutto questo forse più di noi, o almeno più di quanto mostriamo di farlo noi, troppo adusi alla bellezza per non esserne viziati, troppo carichi di storia per non essere immemori, troppo intrisi di civiltà per muoverci a colmarne i vuoti. Avremmo tutti bisogno di essere degni di Sekiguchi, testimone di ciò che in realtà siamo e rappresentiamo.

Non per agitare un vanaglorioso primato morale e civile alla Gioberti, tanto meno per autocelebrarci come eroi, poeti, santi e navigatori. Ma per sentirci cittadini di un forte e libero Paese, che grazie all’Europa (sì, l’Europa) ha ritrovato la sovranità perduta nella catastrofe bellica, e che, con tutte le presenti e terribili difficoltà, sa fare benissimo un mare di cose. Tranne, per fortuna, le guerre e le dittature. Quelle vere e quelle immaginarie con cui si baloccano in questi giorni taluni miei colleghi parlamentari.