30 Agosto 2011

Contro Nesi

Appunti, Meritocrazia

Il mio pezzo per Il Post.

Ho da poco finito di leggere il libro vincitore del Premio Strega di quest’anno, “Storie della mia gente“, l’ultimo lavoro di Edoardo Nesi. È il racconto del tramonto dell’industria tessile a Prato e anche una denuncia potente contro la politica nazionale (spalleggiata da economisti come Francesco Giavazzi, cui è dedicato un intero capitolo del libro) che, a detta di Nesi, ha svenduto la piccola industria italiana consegnandola, senza opporre nessuna resistenza, mani e piedi alla globalizzazione che l’ha poi uccisa. In pratica, secondo Nesi, gli italiani pensavano che saremmo andati a vendere ai cinesi le nostre Ferrari e i vestiti di Armani e invece sono stati i cinesi a mettersi a vendere a noi le loro merci a basso prezzo, uccidendo così interi distretti industriali e, alla fine, in qualche modo, l’economia italiana.
Ho finito la mia lettura apprezzando molto la scrittura elegante e le affascinanti citazioni dell’autore ma insieme con un’enorme perplessità, anche un certo fastidio, sul contenuto di questo libro. In questa storia dolente ma non per questo meno arrabbiata, Nesi non nasconde mai il fatto che la vicenda del distretto tessile di Prato (come di altre realtà italiane nate dalle ceneri del dopoguerra) sia stata una specie di prolungato e generosissimo Natale. Lo sviluppo di quelle aziende era stato infatti “una lunga e fortunatissima cavalcata che… aveva trasportato tutti, capaci e incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti”. Un sistema dove gli industriali “industriali non erano e non erano mai stati”. “Ma la cosa davvero bella, la cosa assolutamente strepitosa era che non bisognava essere un genio per emergere, perché il sistema funzionava così bene che facevano i soldi anche i testoni, purché si impegnassero; anche i tonti, purché dedicassero la vita al lavoro”.
Ecco, io non vedo proprio dove stia la sorpresa, anzi mi pare che questa “apologia dell’incapace” sia pure abbastanza irritante. Non capisco come si possa non pensare che prima o poi quelli più capaci avrebbero cercato (con ogni diritto) di utilizzare le proprie abilità e di emergere anche in un mercato più largo di quello – anteriore non solo all’ingresso della Cina nel WTO ma forse anche a quello dell’Italia nella CEE – di cui romanticamente ci racconta Nesi nel suo libro. E non capisco nemmeno cosa avrebbe dovuto fare la politica per impedire a quelli un po’ meno tonti di emergere.
Perché è vero che con la globalizzazione sono emersi pesantemente i cinesi, ed è pure vero che l’economia cinese è “il braccio armato di una dittatura”. Ma l’emergere dell’economia cinese non è certo un problema soltanto italiano. Ed è anche vero che proprio quelle Ferrari di cui parla Nesi, beh, quelle in Cina non le fabbrica nessuno. “Quali prodotti avremmo dovuto inventare per non farceli subito copiare dai cinesi? Forse le gabardine fatte con la tramontana, le flanelle con l’acqua chiarissima del Bisenzio, il loden con l’olio degli ulivi di Filettole?” Probabilmente sì. Nel mondo fatato descritto da Nesi, in cui l’unico problema era produrre abbastanza per soddisfare la domanda e le fatture venivano tutte pagate puntualmente in dieci giorni, non era previsto “nessun costo di ricerca e sviluppo” e si rideva “a crepapelle dell’idea di dover assumere un dirigente esterno”. Niente ricerca, niente innovazione, niente talento, niente concorrenza.
Il disagio, l’ansia sottile che ho provato man mano che procedevo nella lettura sono nati dalla visione, che emerge nitida e precisa dalle pagine del libro di Nesi, dell’Italia che non voglio. Dell’Italia che ho detestato quando vivevo all’estero, e che fatico ad accettare oggi, e che credo la sinistra italiana dovrebbe lasciarsi senza nessun rimpianto alle spalle. L’Italia lamentosa e nostalgica, attaccata a privilegi anacronistici, incapace di leggere il tempo che viviamo e accettarne – gestendole – la velocità e le dinamiche, senza una sola idea di futuro e incurante di investire sulla propria innovazione, con un sistema imprenditoriale parcellizzato e un mondo del lavoro rigido, pronta ad alzare le barricate intorno a tutele minime che non si sa davvero chi potrà sostenere e finanziare, ma mai a scommettere su se stessa e sulla propria capacità di produrre eccellenza.
L’Italia corporativa, quella che guai a toccare una rendita di posizione, quella per cui una fortuna economica guadagnata cento anni fa deve tassativamente essere una fortuna guadagnata per sempre, per sé e per le future generazioni: l’Italia del “Mario Rossi & Figli”, quella senza tassa di successione, quella di chi eredita la fabbrichetta (o lo studio notarile) senza avere il talento del padre e del nonno. Quella dei monopoli, delle barriere all’ingresso delle professioni, quella che quando entri nel giro non puoi più uscire, ma se esci dal giro o non ci sei mai entrato nessuno si preoccuperà mai di te. Quella dei precari per sempre, quella da cui i giovani fuggono verso paesi che non assicurano loro nessuna garanzia, in cerca soltanto dell’opportunità di poter realizzare se stessi e il proprio progetto di vita.
Mi auguro che il Premio Strega sia un riconoscimento esclusivo alle indubbie qualità letterarie dell’autore. Non l’avallo di una visione politica ed economica con la quale ancora molta parte dell’Italia, e penso sia un enorme problema, avrà, purtroppo, solidarizzato leggendo.

9 risposte a “Contro Nesi”

  1. […] bel post di Ivan Scalfarotto su “Storia della mia gente”, il romanzo di Edoardo Nesi che ha da […]

  2. Giulio Cesare Solaroli ha detto:

    Ivan, finché non diventeremo una società che lascia serenamente fallire le aziende e si occupa di supportare le singole persone eventualmente in difficoltà, non credo che avremo molte speranze.

    I sindacati italiani hanno sempre pensato che per tutelare i lavoratori, andasse tutelata la fabbrica/azienda.

    E questo ha portato alla nascita del sogno del posto fisso. Che però è solo una delle possibili opzioni con cui realizzare il precetto Costituzionale del diritto al lavoro; non necessariamente la migliore.

  3. Sergio Bevilacqua ha detto:

    A favore di Nesi
    Ivan mi sembra che tu attibuisca a Nesi ciò che di Nesi non è. Io invece lo difendo, in particolare ho apprezzato la visione per niente mitica dell’imprenditore, la difficoltà di pensare al cambiamento (perchè cambiare, bisogna dirlo con franchezza, è difficile, la presenza di una doppia identità (scrittore ed imprenditore), la presenza delle emozioni. Che non mi sembra un elemento da poco dal momento che quando si parla di economia, organizzazione aziendale, produttività le emozioni spariscono completamente. Salvo poi riapparire nei momenti di crisi, quando si parla di psicosi o altri atteggiamenti di panico degli investitori, piuttosto che dei governi.
    E poi ho gradito moltissimo la critica ai soloni di turno che pontificano con grande seraficità senza mai un’ombra di dubbio (il capitolo su Giavazzi). Tieni presente che sono unimprenditore che soffre la scarsa logica imprenditiva del paese, la presenza degli ordini che tutelano chi c’è (e chi non c’è si arrangi), la presenza demotivante dell’evasione fiscale e la logica ultragarantista dei sindacati. Detto ciò la politica non si è accorta della devastazione sociale introdotta dalla globalizzazione. Altro che far fallire serenamente le aziende. Purtroppo la legittima contrapposizione alle logiche arretrate degli ordini professionali e direi anche dei sindacati non giustificano l’essere contro Nesi. Un caro saluto

  4. Barbara Setti ha detto:

    Ne parliamo giovedì 15 dicembre alle 17.30 a Feltrinelli International di Firenze, nel gruppo di lettura Lettori Cercasi. Chi ha voglia di parlarne, è benvenuto

  5. Augusto Biagini ha detto:

    sul libro non discuto, ma qui c’è una lettura politica decisamente fuori luogo, fatta non documentandosi su cos’era realmente Prato ma basandosi su cosa si capisce da questo che – in fin dei conti – è sempre un “romanzo”. C’è una indebita e inaccettabile demonizzazione di ciò che era Prato nel suo periodo d’oro e che io, da pratese,non posso accettare. La Prato dove trovavano spazio i meno capaci ma dove il sistema era sorretto da un gran numero di imprenditori e artigiani che avevano un vero e proprio genio per il tessile e che per il loro lavoro spendevano ogni minuto, impiegando soluzioni sempre nuove per creare qualcosa di bello da mettere sul mercato, per questo non c’era bisogno di un fondo per la ricerca e lo sviluppo o di collaboratori esterni, l’estro dei pratesi bastava, l’azienda era non solo produttrice ma anche ideatrice di sempre nuovi prodotti e tutto era all’interno di essa. Conosco persone che si svegliavano la notte perchè gli era venuto in mente un nuovo tessuto e si mettevano a disegnarlo, questo era il motore dell’economia di Prato, l’innata capacità di riuscire a valorizzare quella perfezione del particolare che rendeva belli gli oggetti più comuni.
    Prendere Prato a paradigma del male dell’Italia è decisamente una lettura ingenua e forzata della storia industriale di questa città.
    Per avere conferma delle mie parole e per documentarsi suggerisco la visione del documentario di Teresa Paoli “Di tessuti e di altre storie” (vincitrice premio Ilaria Alpi 2011) che spiega benissimo anche la crisi del distretto e i suoi perchè.

  6. scalpha ha detto:

    Scusi, Augusto, ma io ho scritto un pezzo sul libro di Nesi, basandomi sulle parole di Nesi. E’ lui che dice che “capaci e incapaci erano andati oltre i loro limiti”, non io. La ricostruzione di Prato della quale si discute non è certamente mia e non è di Prato, ma della rappresentazione di Prato che emerge dal libro, che io sto parlando. Le sue lamentele, che non escludo siano giuste, hanno sbagliato destinatario.

  7. Stefano Puglisi ha detto:

    Premetto che non ho letto il libro di Nesi, e che lo farò nel prossimo futuro, ma c’è un punto che non è stato approfondito nel suo articolo: la “globalizzazione” della quale parla l’autore si riferisce all’invasione dei mercati internazionali da parte di merci prodotte in Cina (a basso costo di produzione e perciò vendute a basso prezzo), o si riferisce piuttosto alle merci prodotte (sempre a basso costo) in Italia e, in particolare, nel pratese? Nel secondo caso, secondo me, il discorso sarebbe molto diverso, perché è chiaro che gli imprenditori pratesi non possono competere con le fabbrichette cinesi, dove gli operai sono solitamente sottopagati o, addirittura, ridotti in stato di schiavitù. Se Nesi facesse riferimento alla concorrenza locale, la sua denuncia sarebbe rivolta non solo contro una politica che non fa abbastanza per tutelare le imprese nazionali, ma anche contro le politiche sull’immigrazione e la mancanza di efficaci controlli sulle attività economiche gestite dagli stranieri.

  8. Gianfranco ha detto:

    ho letto il libro di Nesi, e vissuto, anche se indirettamente (non sono figlio d’imprenditori che lavoravano nel tessile), ciò che racconta. L’immagine che Nesi fa della Prato del tempo è nitido, nel bene e nel male, e Scalfarotto lo ha capito perché riporta stralci del libro. Nesi ha amici a Prato e certamente non voleva offendere nessuno, ma è INDUBBIO che la morte del distretto sia colpa sia della miopia della classe politica che ha permesso, e permette tuttora, certe libertà, sia degli imprenditori che non vedevano più in là del proprio naso. Comunque, ottimo spunto di riflessione, grazie

  9. francesco ha detto:

    oh Ivan, qui sono d’accordo al 100% con te! ma veramente al 100%!!!!! anzi, forse su una cosa non la pensiamo uguale, ovvero che non mi sembra neanche scrito così bene questo libro. per il resto hai ragione, è un libro che inneggia alla creazione di steccati, dazi, mura, recinzioni a difesa di un prodotto che altri fanno non so se meglio (ma neanche peggio) ma ad un prezzo più basso. e al cittadino consumatore di tutte le menate a favore dell’industrialotto di Prato (ignorante come una capra, come a Bergamo o Vigevano) non gliene frega una cippa. attenzione, che questo ragionamento è trasversale, impatta su gente che vota lega come rifondazione comunista. innovazione? zero. capacità di organizzarsi in senso moderno? zero. internazionalizzazione? zero. qualita? mica tanto, che il made in italy è una gran balla! purtroppo a pagare il conto non sono stati gli imprenditori, che vendendo le loro aziende son cascati in piedi, ma i loro dipendenti….

    l’italia ha poche speranze…. non mi piace Monti, non mi piace Ichino, non mi piacciono però neanche gli atteggiamenti conservativi.

    è un marmellata, come ho scritto qui sotto….

    http://stanzedivitaquotidiana.blogspot.com/2011/11/marmellata.html