31 Dicembre 2005

I troppi volti della giustizia

Diritti

Un detenuto di Bitonto si è impiccato nella cella del carcere di borgo san Nicola, dove si trovava rinchiuso per una rapina compiuta nel Barese. Per togliersi la vita, Gaetano Maggio, 34 anni, avrebbe usato la cintura dei pantaloni. L’allarme è stato dato da un agente penitenziario, e con l’ambulanza del 118, il detenuto è stato trasportato in ospedale, il Vito Fazzi di Lecce, dove è però giunto cadavere. Della vicenda è stato informato il magistrato di turno, il sostituto Gianni Gagliotta.

(Fonte: Corriere.it, 31 dicembre 2005)

Gli Stati Uniti trattengono prigioniere almeno 26 persone come “detenuti fantasma”, ha dichiarato oggi Human Rights Watch, nel rendere nota la lista dei nomi di alcuni di essi. I detenuti sono trattenuti indefinitamente e senza possibilità di comunicare, senza diritti legali o accesso ad avvocati.
Molti dei detenuti nella lista sono sospettati di essere coinvolti in gravi crimini, tra cui l’attacco dell’11 Settembre 2001; l’esplosione nell’ambasciata americana del 1998 in Kenia e in Tanzania; e le bombe nel nightclub in Bali, Indonesia, nel 2002. Uno dei detenuti nella lista è stato citato presso la corte federale degli USA per il suo ruolo nell’attentato all’ambasciata del 1998. Nessuno dei detenuti è stato chiamato in giudizio o accusato formalmente di alcun crimine.
Funzionari del governo degli Stati Uniti, parlando in modo anonimo ai giornalisti, hanno suggerito che alcuni detenuti siano stati torturati o maltrattati gravemente in altro modo durante la custodia.
“Il presidente Bush dice di portare i terroristi di fronte alla giustizia, tuttavia nessuno di questi sospetti è stato davvero condotto di fronte alla giustizia”, ha dichiarato John Sifton, ricercatore specializzato in terrorismo e controterrorismo per HRW. “L’amministrazione Bush ha gravemente compromesso la possibilità di perseguire i sospetti terroristi trattenendoli illegalmente, e, a quel che si dice, sottomettendoli a torture e ad altri maltrattamenti”.
La detenzione illimitata in isolamento e la tortura sono illegali secondo la legge internazionale sui diritti umani e i codici di guerra, e i maltrattamenti dei detenuti potrebbero rendere incriminabili i pubblici ufficiali degli Stati Uniti.
(Fonte: Yemanjà, 1 dicembre 2005)
Non ha saputo attendere un atto di amnistia o indulto, il detenuto suicidatosi a Lecce. Nell’urgenza del dolore e di una vita distrutta, avrebbe atteso invano. Il Parlamento italiano nella sua maggioranza, è refrattario a qualsiasi appello all’autonomia e alla responsabilità, aduso com’è a trascrivere per automatismo inconscio, i dettami del sovrano. E come ci si potrebbe attendere un atto di profonda, elementare giustizia, da un governo ispirato all’equazione tra giustizia e ratificazione dell’ordine costituito attraverso la tutela degli interessi e privilegi della classe al potere? Nessuna giustizia nemmeno per i detenuti fantasma della guerra americana contro il terrore. A essere messo in crisi dopo l’11/9 è il concetto stesso di giustizia retributiva. Restituire a ciascuno ciò che gli è dovuto, ristabilire la simmetria infranta dall’atto delittuoso attraverso una misurazione corretta del danno e la somministrazione di una pena adeguata è il principio di tale giustizia. Esso presuppone, o crea dal proprio seno nei paesi democratici, i tribunali in cui il processo della giustizia ha luogo: si producono e si verificano prove e indizi, approssimandosi il più possibile al rigore delle scienze esatte. Presiede a questo concetto della giustizia un senso profondo della geometria sociale, che presuppone almeno formalmente l’uguaglianza delle parti in gioco. Ben diverso, e ad esso contraddittorio, è il modello di giustizia che l’amministrazione Bush ha imposto al mondo come unico strumento efficace della lotta al terrore. Si tratta della “giustizia di frontiera” e riemerge dal fondo oscuro della storia degli Stati Uniti, quando nei territori di confine del selvaggio West singoli uomini di legge amministravano la giustizia con la forza. Ricorderete il bellissimo film di Samuel Peckinpah, “Cane di paglia”, in cui un mite professore di matematica, barricato nella sua casa assediata, commette una strage per evitare il linciaggio di un innocente. Ma qui c’è una differenza. Mai il protagonista del film presume o dichiara pubblicamente al mondo che il suo è stato un atto di giustizia. Afferma anzi, nelle sequenze finali del film, di non sapere “quale sia la strada giusta”. La pregnanza e il valore simbolico del film stanno proprio nel delineare la tragedia di un individuo isolato che in una situazione estrema di violenza incontenibile è costretto a scegliere tra due forme di male senza poter sperare in una giustificazione etica del proprio agire. Ed è palese che agli occhi del regista, questa forma aberrante di giustizia è concepibile solo se applicata da un individuo collocato in una “terra nullius” in cui non c’è comune accordo sulle definizioni di bene e male. Mai, e in nessun caso, può essere applicata alle relazioni tra stati e popoli, tra i quali intercorrono rapporti economici, commerciali, diplomatici, culturali e vi sono pertanto innumerevoli vie da perseguire per ristabilire la geometria dei rapporti umani. L’unica soluzione è stata per il governo Bush quella di ricreare artificialmente quella terra deserta, quel non-luogo prefigurato dalla retorica “Wanted dead or alive” del selvaggio West. E sono nati Guantanamo, Abu Ghraib, le prigioni occulte che sfuggono a qualsiasi giurisdizione, e per ciò stesso a ogni proporzionalità della pena, a ogni misura civile. Vi si pratica il dominio brutale dell’uomo sull’uomo, dell’aguzzino sul detenuto inerme, lo “stato di natura” vi è ristabilito nel modo più brutale. Senza aspirare a giustificazioni né dover rendere conto (fine della giustizia retributiva e della sua matematica della coscienza) ad autorità alcuna. Il movimento pacifista negli ultimi anni sta cercando di affermare un nuovo concetto di giustizia, restaurativa o riparatrice, che tenga conto del fallimento della giustizia retributiva e ne riaffermi il giusto principio con uno sguardo più globale. Un esempio ne sono i tribunali di pacificazione nazionale operanti in Sudafrica: chi ha commesso delitti a sfondo razziale durante gli anni dell’apartheid viene chiamato a pubblico processo, viene prestato ascolto alla testimonianza di ogni vittima e formulato un giudizio. Se il colpevole lo accetta, riconosce pubblicamente il delitto commesso e dimostra di non costituire più un pericolo per la società, viene reintegrato nella comunità da cui proviene. Altrimenti, si procede attraverso le tradizionali vie legali. Si cerca in tal modo di risanare la contraddizione tra il desiderio di giustizia della vittima e la sua volontà di prendere parola e testimoniare del male subito e l’impossibilità di perseguire penalmente e incarcerare tutti i responsabili di crimini razziali che per decenni hanno costituito la norma del comportamento. La giustizia riparatrice in un altro contesto si servirà di tutti gli strumenti della giustizia penale, ma tenendo conto che il reato ha lacerato un intero tessuto sociale che deve essere ricostituito. Saprà che commettendo un crimine, il colpevole ha compiuto un atto di cui è responsabile, ma le cui conseguenze lo superano. E riconoscerà soprattutto, come primo atto di autentica giustizia, l’umanità del criminale. Non più mostro da cancellare attraverso il fuoco purificatore della guerra o della pena capitale, ma nostro simile in cui rispecchiarci, in cui riconoscere quei germi del male che appartengono al dramma e al mistero della condizione umana. Per trovare la forza di rispondere al male con un rinnovato impegno verso il bene, con politiche di pace al culto della violenza, con la giustizia anche sociale all’ingiustizia individuale.
Gabriella Stanchina